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Patologie dell'individualismo. Pleonexia e diritti
Pier Paolo Portinaro, Università di Torino
La violenza è legata all’istinto di sopraffazione e alla volontà di prevaricazione, che hanno la loro radice nell’elemento irascibile dell’anima, nell’animosità (thymos) posta al servizio dell’impulso acquisitivo, l’amor sceleratus habendi, come lo avrebbe definito Ovidio. Il termine greco che meglio denota il sostrato antropologico da cui scaturiscono i comportamenti antisociali è pleonexia. Ad esso fa insistentemente ricorso Platone nel delineare quel disordine dell’anima che si riflette sul disordine della città. Nella sua tripartizione delle forze psichiche, egli annovera, come potente e anzi sovrastante controparte dell’elemento razionale, l’operare di due masse energetiche legato allo smodato bisogno di riconoscimento (quella che sarà per Hobbes la «vanagloria») e all’insaziabile brama di gratificazioni materiali. Di avarizia e ambizione parleranno costantemente (e il lessico machiavelliano ne fornisce una documentazione impressionante) gli umanisti alle soglie dell’età moderna: attraverso la mediazione latina, l’antropologia definita dal pensiero greco si sarebbe così saldamente attestata anche nel nucleo della moderna dottrina dello Stato. A partire da questa falda antropologica la violenza dispiega le sue potenzialità distruttive dell’ordine anche in virtù della variabilità delle motivazioni e della creatività dell’animale umano. Ma al disordine dell’antropologia pleonectica occorre porre rimedio. E il rimedio viene da dike, un termine di ambivalente e stratificata significazione (la figlia di Zeus e di Themis è imparentata anche alle Erinni, le divinità vendicatrici), ma che in tutte le sue accezioni evoca l’idea di un qualche equilibrio che va restaurato, dopo un’alterazione, tra l’interesse del singolo e quello della collettività.
Dal Convegno Individualismo moderno e contemporaneo, organizzato in collaborazione con la Fondazione San Carlo di Modena | 28 maggio 2014 | Sala Azzurra